Pioveva, ma non
acqua pioveva felicità. Le gocce radiose attraversavano l'aria,
penetravano attraverso gli abiti, inzuppavano gli abitanti del
piccolo paese andino. Si infilavano sotto le tegole, attraverso i
comignoli, invadevano le case: un'inondazione di felicità!
Cominciò così il diciassette di aprile, ad Ayacucho. Era finita
la guerra e scoppiata l'allegria della gente. Una cosa nuova per
quel posto sperduto nella selva colombiana, una cosa antica per
tutti quei momenti di "ricostruzione" che gli esseri
umani vivono e poi dimenticano nel ritorno a una quotidianità
che dà per scontate le grandi conquiste. Me l'hanno raccontato i
miei genitori, parlandomi del dopoguerra in Italia, l'ho annusato
un po' i giorni del ritorno alla democrazia del Cile, quando la
gente sembrava avesse colori diversi, quando perfino i
democristiani cileni mi sembravano brave persone pronte a
cambiare il mondo !!! Ora tutto questo risuonava lì, nella umida
selva, in un villaggio di poche case ed i colori diversi erano
quelli, allo stesso tempo, dei guerriglieri e dell'esercito,
della povera gente e dei ricchi propietari terrieri, dei
campesinos e dei narcos. I cambiamenti erano palpabili, la gente
che incontravo sorrideva! Da quanto tempo sui visi solcati dalle
rughe dei campesinos non notavo un sorriso. Il problema era la
fame: dopo un primo momento d'ubriacatura di libertà ci si
rendeva conto che mancava di tutto, le strade e i ponti che
conducevano ai porti erano un ammasso di macerie, poco sicure e
impercorribili dall'altipiano. Un via vai di gente la
s'incontrava in ogni dove, come se per tutto il lungo periodo si
fossero rintanati chissà dove. In me si faceva sempre più
intensa la volontà di tornare a casa, la mia missione era al
termine, ma in fondo amavo questa gente, da loro avevo avuto
molto e lasciarli sarebbe stato un tradimento, ma d'altronde era
necessario un mio rimpatrio anche temporaneo per motivi economici
e affettivi nei confronti di chi avevo lasciato in Italia. Dal
villaggio dove mi trovavo al primo aeroporto, nelle condizioni
stradali attuali chissà quanti giorni sarebbero occorsi, intanto
ero stato affiancato da due validissimi colleghi medici
missionari e dovevo approfittare di questa situazione per
rientrare. E poi una mia relazione sulla situazione
dell'altipiano avrebbe sicuramente agevolato l'invio di derrate
necessarie. Decisi di rimanere ancora qualche giorno, il tempo
necessario per girare l'intero altipiano con i due nuovi
colleghi, la mia esperienza in quei luoghi avrebbe certamente
agevolato il loro inserimento. Ci ritrovammo il mattino
successivo prima dell'alba, intorno a noi sembrava non esistesse
nulla, c'era solo il buio e poi improvvise figure illuminate dai
fari del nostro fuoristrada. Sembravano ricordi che s'
illuminavano all'improvviso nella nostra mente. Piano piano, un
chiarore ci fece comprendere che anche in quella parte di mondo
dimenticata dagli uomini, di Dio meglio non parlarne, il sole
veniva a restituire l'alba. L'alba umida tropicale, densa di
acqua e di speranze, piena di suoni e colori, odori, movimenti,
illusioni. Le foglie si piegavano sotto il peso di quelle lacrime
scintillanti, ogni goccia percorreva per intero le venature
lucide di rugiada, poi, come d'incanto, aumentava la sua corsa
verso l'apice, per avventurarsi in un ultimo volo e scomparire
tra le radici scure degli alberi. Dell'oscurità della notte, ci
erano rimasti i sogni, e forse la consapevolezza di essersi persi
nella grandiosità della natura, angeli con una sola ala che
hanno bisogno l'uno dell'altro per poter volare, e risalire sopra
quell'intrico verde per tornare a vedere il sole. Il sole, sì,
che, nel frattempo, si era alzato sopra le nostre teste e
splendeva caldo e presuntuoso come i nostri sogni che dopo molto
tempo tornavano a librarsi in volo. Così ragionavamo, quando
improvviso un rumore, quasi un rombo lontano, ci costrinse a
rituffarci nella realtà. Un camion, sembrava prorpio trattarsi
di uno di quei camion militari che fanno sobbalzare al solo
pensiero tutti i sudamericani, abituati a temere chiunque abbia
un'arma e porti una divisa, a trasalire a quel rumore come allo
scatto secco di un caricatore.
Naturalmente ero abituato a quegli improvvisi posti di blocco e
all'ansia ed alla paura che la loro vista sempre mi provocava.
Tentai di tranquillizzare i miei colleghi mentre cercavo di
riordinare le idee. La guerra era finita e non mi aspettavo di
dovermi ancora difendere.
Fermai l'auto a pochi centimetri da un individuo che aveva nello
sguardo tutta la prepotenza che i militari indossano assieme alla
divisa. Lui avvertì la nostra tensione e ne sembrava enormemente
compiaciuto mentre con gesti espliciti ci invitava a scendere
dall'auto