Da Punta Arenas ad
Ushuaia
Partiamo
da Punta Arenas alle nove di mattina, con un cielo cosí azzurro, ma cosí
azzurro che ti viene voglia di dire: io non parto, resto qui a godermi la giornata.
Peró non é che l’esperienza sia acqua fresca: ho imparato che in Patagonia il
clima cambia molto velocemente, ed in genere tende al brutto. Quindi mi
accomodo al mio asiento numero 27 con macchina fotografica, Ipod, cassaforte (=
borsa contenente tutto ció che mi é indispensabile, che poi ho scoperto essere
poco e poco voluminoso) sulle ginocchia, pronta ad affrontare le 11 o 12 ore di
viaggio. La francesina davanti a me inclina subito il sedile, io
devo fare lo stesso per riuscire a farci stare le gambe, effetto domino, tutti
inclinati. Questo é in assoluto il bus piú scomodo che io abbia preso.
Arriviamo al traghetto della prima angostura (=passaggio corto) dello stretto
di Magallanes e ci capita un vero colpo di fortuna: ieri il traghetto non ha
potuto viaggiare, a causa del vento. Oggi ha fatto solo una corsa e ora fará la
nostra, dopo di che basta, sempre per il vento. Ci spiegano di stare
tranquilli, nessun pericolo durante i 20 minuti di traversata, il problema sta
nell’imbarco e nello sbarco, perché non si riesce a tenere traghetto e
passerelle abbastanza fermi. Tanto per non sbagliare, scendiamo tutti e
lasciamo che il bus salga con solo l’autista...ed i nostri bagagli! Attimi di
suspence, ma poi va tutto bene. Altro colpo di fortuna: durante la traversata
vediamo due toninas, che sono dei piccoli delfini con la pancia bianca ed il
dorso nero, buffissimi. E cosí metto piede sulla Tierra del Fuego! Che poi
assomiglia moltissimo alla Patagonia che sta al di lá dello stretto
di Magallanes...tranne
che di lá le strade sono asfaltate e a quanto pare di qua no. Piú o meno 200
chilometri di strada bianca, fino a quando si entra in Argentina. Di essere in
Argentina ve ne accorgete per due cose: la strada torna ad essere asfaltata e
tutto costa il doppio. Per il resto, tale e quale: stessa lingua, stesse facce,
stesso paesaggio. Ma guai a dirglielo! Cileni ed argentini si detestano
cordialmente, qui in Patagonia, questioni di confini mai risolte e
probabilmente mai risolvibili. Dunque continuiamo fra lande piú o meno
desolate, con ciuffi di erba secca che sembrano i capelli trapiantati sulla
testa di un calvo, pecore che la mangiano e rarissime case. Ogni tanto la
meraviglia di un lago con dei frnicotteri, cosí assurdo che ti sembra un
miraggio.Un’altra cosa strana é che, arrivati molto piú a sud e quindi vicini
all’antartide, il paesaggio cambia totalmente: boschi, radure con erbertta
verde, mucche con vitellini,
ruscelli che sguazzano
via...incredibile! E montagne, ritroviamo le Ande che qui smettono di andare da
nord a sud ma piegano decisamente verso est, con le cime innevate.
Attraversiamo il passo Garibaldi ed arriviamo all’unica cittá argentina che
stia ad ovest delle Ande: Ushuaia. La fine del mondo, la cittá piú meridionale.
D’accordo, se parliamo di cittá. Perché proprio di fronte ad Ushuaia, piú a
sud, c’é Puerto William, sull’isola Navarino, che peró non é una cittá e
soprattutto non é argentina, é cilena! Ushuaia mi appare proprio simpatica,
casette, mare calmo visto che é un canale ( il canale di Beagle), un paio di
ghiacciai proprio lí dietro e tanti boschi tutto intorno. Idilliaco. A parte il
freddo, polare. Fermo un taxi per farmi portare al bed & breakfast, ma gli
dico che non ho pesos argentini, solo pesos cileni o dollari. Mi dice che i
dollari possono andare bene, ma i pesos cileni assolutamente no! Comunque mi
porta ad uno sportello bancomat: io scendo per ritirare un po’ di soldi locali,
che guarda caso si chiamano anche loro pesos, con un po’ di perplessitá visto
che tutto il mio bagaglio rimane nel taxi. Ma se non avessi fiducia nella gente
non potrei viaggiare in questo modo, cosí vado. Torno indietro ed il taxista
comincia tutto un discorso in cui mi spiega che a Ushuaia posso stare
tranquilla perché non c’é delinquenza, certo devo diffidare dei turisti ma non
degli abitanti del posto, che posso bere tutto quello che voglio (e qui mi
accorgo senza ombra di dubbio che lui l’ha giá fatto), mi lascia il suo numero
di telefono se mai avró voglia di andare in taxi al ghiacciaio Martial, ed
altre cose che non ho ben capito... Per fortuna arriviamo sani e salvi, lo
saluto e finalmente metto piede in una simpaticissima camera con vista sulle
montagne, bagno annesso pulitissimo tutto giallino, nulla da eccepire, tranne
che si sono dimenticati che arrivavo stasera e non hanno acceso il
calorifero.....Due coperte di lana, un piumone, berretto, golf, calzerotti,
tanto sonno e tanta pazienza, che ci volete fare. Credo di essermi addormentata
in non piú di cinque minuti.
Pinguini 2 –il ritorno
Cosa
fa una che non ha ancora deciso se i pinguini sono animali carini o no? Torna a
guardarli! E cosí ho fatto io: prendo su e vado a vedere come sono i pinguini
ad Ushuaia. Stessa razza di quelli di Punta Arenas, mi dice la guida: pinguini
di Magallanes, piccoli, alti 40 cm. Ah, lo dicevo io, che non potevano essere
alti 70 cm ed avere le spalle curve! Questa guida mi piace giá di piú. Andiamo
su un’isola che é diventata una colonia di pinguini recentemente, nel 1973, a
che solo da 4 anni si puó visitare. Hanno fatto le cose molto bene, un po’ come
alle Galapagos: poche persone alla volta, gruppi di non piú di dieci turisti (infatti
noi siamo 11 e il guardiano storce il naso, peró chiude anche un occhio),
sentieri tracciati con pezzi di legna per terra, nessun cartello e nessuna
torretta di avvistamento, solo una corda tirata per delimitare la zona in cui
stanno covando, piú che altro per evitare di cacciare un piede in una tana.
Beh, ammetto di essere un essere molto influenzabile dalle circostanze: devo confessare
che in questo ambiente i pollastri (che poi erano proprio gli stessi) mi sono
piaciuti molto di piú. C’erano anche i pinguini Papua, che sono un poco piú
grandi, ma non li riconosci tanto per la statura quanto perché hanno il becco e
le zampe arancioni. E perché, invece di scavare il nido sottoterra se ne
costruiscono uno sopra con sassi e sterpaglie. In quest’isola ce ne sono solo
14 coppie, e si sono
fatte il nido tutte
vicine, sembra il Parco della Vittoria. Abbiamo potuto andare vicinissimi ad
alcuni pinguini di Magallanes che covavano, mentre il coniuge se ne stava
tranquillo all’imboccatura della tana, guardandoci con quell’espressione che a
me sembra sempre del tipo: se vuoi ti firmo un autografo. La vita della coppia
pinguino mi sembra ottimale: si incontrano, fanno l’amore, covano e mettono al
mondo il polluello, lo nutrono finché non ha abbastanza piume per entrare in
acqua, gli insegnano a nuotare e a procurarsi il cibo. Tutto questo dura circa
6 mesi. Dopo di che, ognuno per conto suo, mamma, papá e figlio. Passati altri
6 mesi mamma e papá tornano alla stessa spiaggia (anzi, il papá torna prima per
preparare la tana), si riconoscono dal canto e ricominciano i sei mesi insieme.
Mica male.
Calafate
Il
calafate, da cui prende il nome questo ibrido paese, é un arbusto con
fiorellini gialli in questa stagione e bacche blu tipo ginepro-mirtillo in
gennaio. Ci si fa di tutto, dalle marmellate alla birra. Ma soprattutto c’é un
detto che dice: chi mangia il calafate ritorna in questi luoghi. A me non é che
piaccia molto il paese Calafate, anzi non mi piace proprio per nulla. Mi
piacciono invece molto i suoi dintorni, dal Perito Moreno a El Chalten, quindi
mi sono bevuta tranquillamente l’ottima birra Austral Calafate. Ed eccomi
ancora qui. Sono le sei di sera. Avrei dovuto partire alla una meno un
quarto....per Buenos Aires, via Ushuaia (che, tra parentesi, sta dalla parte
opposta). Il volo da Ushuaia a Buenos Aires é stato annullato e noi sei tapini
che avevamo accettato lo scalo inutile pur di pagare meno siamo stati dirottati
su un’altra linea, volo diretto ma alle sette e mezzo! Cosí eccomi di ritorno
al paese di Calafate, appena due ore
dopo esserne partita! Devo dire peró, a difesa della Lade, che ci hanno pagato
un ottimo pranzo, oltre che il trasporto per e da. Chissá se poi partiremo
davvero....
Intanto
vi dico quello che ho fatto in questi tre giorni a Calafate. Il primo giorno
sono andata a vedere e a sentire il Perito Moreno. É un ghiacciaio matematico:
ogni giorno avanza ed arretra di due metri, un capolavoro di equilibrio. Avanza
perché ha un sacco di ghiacciaietti tributari che lo nutrono, arretra perché
perde pezzi. E li perde nella laguna che ha davanti, con dei boati notevoli.
Insomma, é il primo ghiacciaio parlante che incontro. Una conversazione un po’
monotona e brontolona, comunque qualcosa di molto particolare. Non é che sia il
piú bel ghiacciaio, neppure il piú grande, peró é il piú accessibile: ci si
arriva con il bus, volendo si va anche in battello nella laguna tra i tempanos,
poi basta scendere un po’ di gradini e ci si trova sulle passerelle arcisicure
e arcimetalliche, in grado di reggere le centinaia di turisti che fanno: oh! In
tutte le lingue del mondo. E tu fai il fioretto di non aprire bocca, con la
speranza che qualcun altro ti imiti e si lasci parlare solo il ghiacciaio.
Gli altri due giorni li
ho passati in un posto fantastico: El Chalten. In realtá non é un paese, é nato
nel 1985, possiede giusto il comune, la polizia e la posta. Non una banca né
uno sportello bancomat. Tanti alimentari, tanti hostal, qualche albergo e due o
tre campeggi. É il centro del trekking della regione. Ai piedi del Cerro Torre
e del Cerro Fitz Roy. Arrivarci é stato una comica, chi mi diceva che ci
volevano due ore e mezza e che si poteva andare in giornata, chi sosteneva che
ci volevano quattro ore e che non era possibile trovare una camera perché era
tutto pieno, il caos. Allora con santa pazienza (di entrambe) ho messo in un
angolo la padrona del b&b ed ho cominciato a fare domande. E lei ha
cominciato a telefonare. Risultato: biglietto per il bus delle 13.00 e ritorno
il giorno dopo alle 18.00, camera con bagno ad un prezzo ragionevole e mi
verranno a prendere all’arrivo a El Chalten. Il viaggio é stato
decisamente panoramico,
lungo il lago Argentino e l’ultimo pezzo con il Cerro Fitz Roy cosí bello
davanti al naso che l’autista ha fermato il bus per farci scendere a
fotografarlo, prima che sparisse dietro le nuvole. Durata complessiva: tre ore
e un quarto, compresa la sosta alla taverna Leona per un caffé ed il necessario
gabinetto. L’hostal in compenso apriva quel giorno: sono stata la prima
cliente, stanza che sapeva di vernice e niente acqua fino al mattino dopo
(problema della pompa del paese, a detta dei ragazzi che gestivano il tutto,
pare che la sera prima avessero dovuto chiudere il ristorante alle nove perché
non si potevano lavare i piatti!). Siccome la giornata non accennava a finire
ed il sole ed il vento continuavano ad essere presenti, me ne sono andata a
camminare fino ai belvedere del Condor e dell’Aquila (una fantasia, per i
nomi...). Ed ho capito senza ombra di dubbio che io sono una donna da montagna.
La bellezza di quello che avevo intorno, il frizzante dell’aria, la luce
pulita, insomma, mi sono sentita piena di energia. Il giorno dopo, camminatona
di 6 ore (badate bene: senza allenamento!) fino alla laguna del Cerro Torre.
Purtroppo il
Cerro Torre era immerso
nelle nuvole, come pare accada quasi sempre, e alla laguna c’era tempesta, ma
per il resto una vera goduria. Insomma, un posto dove tornare per una decina di
giorni. Magari in un altro hostal...