Luang
Prabang
Ed
io volevo tornare a casa…Beh, state a sentire: parto da Hanoi sotto grigi
nuvoloni, l’aereo li buca e finalmente vedo il sole. Dopo poco vedo anche le
montagne, i boschi: una giornata di sereno, cosí si procede fino a pochi minuti
prima di atterrare a Luang Prabang. Metto piede in Laos sotto un cielo grigio grigio. Adesso
basta, trio o non trio guastafeste, non ne posso piú, torno a casa. Peró mi
viene in mente una e-mail letta da poco: a Milano piove. Tanto vale beccarsi il
brutto tempo qui. Vado in albergo, la camera prenotata non é libera, cercano di
affibbiarmene una che costa il doppio, rifiuto. Allora mi mandano nella
dependence per una notte, domani torneró sulle rive del Mekong. Decido di
cercarmi un altro albergo nel pomeriggio, detto fatto, stesso prezzo, piú bello
e.....é uscito il sole!!!! Tutto per il meglio, fino alla mattina dopo: il
nuovo albergo non mi dá la camera, l’ospite si é ammalato, non é partito.
Guarda caso, la stessa scusa del primo. Sono davvero scoraggiata, c’é anche la
nebbia. Mi metto per strada e finalmente trovo una stanza, in una guest house
molto carina, camera a pian terreno con balconcino
sulla strada, da dove
sto scrivendo. É divertentissimo: sto a 50 cm da dove passa la gente, qualcuno
si ferma a chiedermi se in questo albergo si sta bene, se c’é la connessione
Wi-Fi, quanto costano le stanze. Ho giá procurato due clienti per domani. Per quanto riguarda il clima, ho capito che
fino alle 10 c’é la nebbia e fa freddino, tipo che si sta bene col golf, poi
comparre il sole e la temperatura comincia a salire, sale fino a circa 26-28 e poi la sera
ridiscende, la notte si dorme con la coperta di lana. Una pacchia, se continua
cosí.
Luang
Prabang é incredibile: passo le ore per strada, da un tempio all’altro, lungo
il Mekong o nel museo nazionale, attraverso il mercato della frutta e quello
delle stoffe e nessuno vuole vendermi nulla, nessun ristoratore insiste perché
vada a mangiare nel suo locale, nessun conduttore di pseudo-veicolo mi vuol
portare in giro! Dopo l’esperienza del Vietnam, sembra di essere in paradiso.
Anche gli sciami di turisti che ogni tanto si incontrano sembrano piú
rilassati, tranquillamente si godono la cittá. Il mio balconcino é quasi in
fondo alla penisola formata dai due fiumi, davanti a me, oltre la strada,
passano sul Mekong le slowboats, sono rilassate anche queste, e sono poche. Le
sponde, siccome siamo in periodo di magra, sono piene di orti e la verdura che
si mangia nei ristorantini lungo la riva la colgono poco prima. Anche il pesce
é ottimo, sembra impossibile dato
l’aspetto fangoso dell’acqua. Le case sono tutte basse, un solo piano, con
balconi di legno e tante piante. Per strada si incontrano i monaci, vestiti di
arancione, giovani. Stamattina ho passato un’ora con uno di loro, si chiama
Sichanh, nel Wat That Luang: mi si é avvicinato con le solite domande, da dove
vengo, da quanto tempo sono in Laos e cosí via, poi mi ha detto che studia
inglese a scuola e che ha bisogno di far pratica. Mi ha raccontato tutto del suo
tempio, delle sue giornate ed ha voluto sapere tutto della mia vita: 54 anni
condensati in pochi minuti e per di piú in inglese, vi assicuro che non é
facile! Ma ancora meno facile é stato per lui pronunciare alcune parole in
italiano: mi ha chiesto come si dice hallo, e fin qui con “ciao” tutto bene, ma
quando siamo arrivati a good bye é stato esilarante sentire come diventa
“arrivederci” pronunciato da un laotiano! Anche Laura poneva alcuni problemi,
cosí mi ha ribattezzata Lala, molto meglio. Ci siamo dati appuntamento per
dopodomani, a mezzogiorno. Mi sa proprio che a Luang Prabang ci staró a lungo.
Phonsavan
Perché
uno va a Phonsavan? Io vado a Phonsavan per due ragioni: le giare e la
necessitá di scantarmi. A Luang Prabang ci si sta cosí bene che non mi muoverei
piú, ma il diabolico ragionamento del viaggiatore si fa avanti. Cosí, passando
tranquillamente davanti ad un’agenzia di viaggio e vedendo reclamizzato un tour di tre giorni a
Phonsavan, mi dico: perché no? Avevo letto la storia delle giare sulla guida,
andiamoci. Entro e mi sparano una cifra folle, 480 dollari per tre giorni: sono
l’unica che vuole andare a Phonsavan, mi tocca pagare per quattro, numero
minimo. Dico no grazie, il ragionamento del viaggiatore verrá placato con altra
meta. Arriviamo ad un compromesso: fissiamo la partenza fra quattro giorni,
nella speranza che nel frattempo si iscrivano altri tre passeggeri. Altrimenti, nisba. Ci sto, anche
perché l’idea di altri quattro giorni qui mi piace. E cosí diamo il tempo di
comparire a due tedeschi dell’est, Ingo e Thomas, e ad un ragazzone americano
che ha appena finito di studiare, Matt. Partiamo con comodo alle nove del
mattino, con un bel minibus da 12 posti solo per noi quattro, una roba da
sciuri. Sono meno di trecento chilometri, robetta. Giá, peró non ho tenuto
conto delle curve: 418 curve, tornante piú tornante meno, otto ore di viaggio
su e giú per le montagne. Un incubo, per fortuna mi sono accaparrata un ottimo
posto in prima fila e Jane Austen mi fa passare il tempo, ascolto tutta la
lettura di Emma. Ma eccoci tutti belli e riposati il giorno dopo, pronti per
andare a scoprire le giare: in questa piana ce ne sono 2226, dice chi le ha
contate, noi ne vediamo molte meno, per fortuna. Hanno circa 2000 anni e non si
sa a cosa servissero, visto che le hanno trovate vuote. Adesso vengono riempite
solo dai turisti che ci si mettono dentro per farsi
fotografare (ebbene sí, anch’io!). Lo spettacolo
é quantomeno strano, anche perché questo altipiano ( siamo a 1100 metri) é
molto diverso dal resto del Laos: arido, terra rossastra da deserto, le risaie
piene di stoppie perché il riso viene coltivato soltanto nella stagione delle
piogge, visto che l’acqua necessaria puó solo cadere dal cielo. E i pini
marittimi! Ingo sostiene che é a causa della composizione del terreno, di tipo
sabbioso. Sará, peró vi assicuro che fanno effetto, in mezzo alle montagne del
Laos, sembra di essere a Bonassola, sul Bracco. Oltre alle giare troviamo
parecchi crateri di bombe esplose durante la guerra contro gli americani, e un
certo numero di bombe é ancora dato per disperso, in mezzo ai campi. Bisogna
camminare dalla parte bianca dei segnali posti lungo i sentieri, la parte rossa
é stata controllata solo a vista. Anche questo fa un certo effetto, mi era
capitata la stessa cosa in Cambogia. Ma quello che mi
annichilisce piú di tutto é l’osservazione di
Matt:”Proprio non sapevo che gli americani avessero combattuto anche in Laos,
so tutto del Vietnam, ma il Laos...”. Guardo Ingo, che parla inglese molto
meglio di me, per essere sicura di aver capito bene, e dalla sua espressione
capisco che ho capito. E poi dicono che sono i nostri studenti a non sapere la
storia! La giornata finisce con macerie varie di templi e stupa, con case
costruite utilizzando pezzi di bomba, oltre all’immancabile mercato alimentare,
dove ci offrono topi (morti) e rane (vive). Ad ogni buon conto, la sera mangio
zuppa di noodles con verdura....
Da Luang Prabang a Vientiane
Per
andare da Luang Prabang a Vientiane mi si offrono tre possibilitá: aereo (40
minuti), autobus (da 8 a 12 ore) e battello (tre giorni). Scelgo l’autobus, il
tempo non mi manca e in aereo non si vede quasi nulla. Questo mi dico, in una
mattina fresca e soleggiata, a Luang Prabang. Siccome poi viaggio con un certo
agio, scelgo l’autobus Vip, quello con aria condizionata e che fa una sola
fermata, é il piú veloce, ci mette otto ore. Nella tariffa é compreso il
tuk-tuk che mi viene a prendere direttamente alla guest house, e per fare la
comoditá completa invece di quello che parte alle otto scelgo quello che parte
alle nove. Perfetto, me ne vado da Luang Prabang ma lo faccio alla grande. Sono
le nove e partiamo, non c’é un posto libero, di fianco a me si siede un
giapponese di dimensioni notevoli, dietro ho una coppia francese di mezza etá
che mi pare simpatica, vuol dire che fino a Vang Vien, dove scenderanno, non
inclineró troppo lo schienale. Sono le nove e venti e siamo fermi, davanti ad
una baracchetta, a gonfiare le gomme. Qualcuno osserva: ma non potevano
pensarci prima? Qualcun altro (tra cui io) teme che l’inconveniente si sia
presentato in questi venti minuti. Pazienza, felici i fumatori che giá si
vedevano costretti all´astinenza per ore e invece cominciano bene. Di sigarette
ce ne starebbero anche due, prima di ripartire. I sedili sono molto comodi, io sono
in seconda fila nella zona superiore, dalla parte del finestrino, ho acqua,
biscotti, sudoku, Ipod, mandarini, il panorama é verdissimo e c’é il sole,
evviva! Cominciamo a salire e mi godo proprio il viaggio. Ma ecco che, dopo
un’ora di arrancamento a 30 all’ora su per la montagna, siamo fermi un’altra
volta. Questa volta il problema é piú serio, l’autista e l’aiuto aprono il vano
motore, i passeggeri esperti di meccanica di autobus (sapeste quanti ne abbiamo
a bordo!) si raccolgono lí vicino, a consulto. Le capre di meccanica come me
stanno un po’ piú lontane, cominciamo a preoccuparci veramente quando vediamo
estrarre dal motore una lunga cinghia nera. E poi altri pezzi, tutti depositati
sull’asfalto ed osservati con attenzione dagli esperti. Il signore francese,
che si chiama Paul ed é di Nancy, dice che probabilmente dovremo aspettare che
ci mandino un altro autobus, questo sta agonizzando. Peró lui, prima di andare
in pensione, faceva l’impiegato di banca. Magari si sbaglia, magari non se ne
intende poi cosí tanto. Io mi unisco ad un gruppetto di ragazze giapponesi che
cerca un posto discreto per fare pipí, meglio approfittare e portarsi avanti con
le necessitá, non si sa mai. Poi sentiamo un applauso e ci sbrighiamo a tornare
indietro: macché, é solo diretto ad un ciclista che passa arrancando, con le
sue due ruote ed il bagaglio in canna. Lui intanto procede, con un sorrisino.
Dopo circa un’ora e non so piú quante foto dell’autobus, della gente, del
panorama, riusciamo a ripartire. Un miracolo di meccanica laotiana, speriamo
che tenga. In effetti tiene per tutto il viaggio, che risulta peró ancor piú
rallentato, cosí le otto ore diventano undici. Attraversiamo vari abitati, non
si possono chiamare paesi perché sono formati da qualche capanna soltanto,
tutti poverissimi. In questo periodo sono maturi i pennacchi delle canne, che
la gente raccoglie, sbatte con forza un po’ di volte per scrollare via non so
cosa, e poi mette al sole a seccare. Ci fanno coperture di tetti e scope, a
quel che ho visto. E dove meglio metterli a
seccare che non lungo la
strada? Ancora meglio, proprio sull’asfalto. Quando si ha ben poco in casa si
vive fuori, e se il fuori consiste nella
strada, é ancora piú bello, passa la gente, a volte passano quelli con le facce
cosí strane, quelli che vengono da altri paesi. Cosí l’attraversamento di
questi abitati diventa una gimcana tra polli, bambini, capre, maiali, fra donne
che lavano di tutto in grandi catini di plastica, qualcuna che si fa la doccia
riparata solo da un recinto di bambú cosí rado che, se non indossasse il
sarong, sarebbe offesa al pudore! E chi non si fa la doccia si é appena lavata
i capelli e se li pettina asciugandoli al sole. Quando finiscono le capanne,
non é che la circolazione poi sia tanto piú sicura, perché agli impicci detti
prima si aggiungono i bufali e le mucche, tutti rigorosamente anarchici e
refrattari a qualsiasi recinto. In effetti, non capisco perché questi contadini
si diano la pena di recintare i pascoli: sono molto piú le bestie fuori di
quelle dentro. A meno che non sia proprio questo lo scopo, boh, valli a capire.
Se a tutto ció aggiungiamo che i tre quarti del viaggio si svolge su e giú per
le montagne, si puó ben capire che di tempo per spostarsi ce ne voglia molto.
Peró cosí é proprio un bel viaggiare. Alle tre del pomeriggio facciamo sosta in
un caravanserraglio e ci offrono perfino la zuppa! Insomma, dopo aver scroccato
noccioline dal giapponese, un invito a Nancy dalla coppia dietro di me, un
appuntamento al That Luang per domani con due ragazze tedesche, dopo essermi
ascoltata Tifone di Conrad ed aver cominciato uno sceneggiato con Nero Wolfe,
dopo aver risolto una ventina di sudoku, poco dopo le otto di sera arrivo in
pompa magna a Vientane,